di Mauro Lanzilotto
Wimbledon, l’archetipo del tennis al di là del tempo che scorre e porta con se il messaggio dell’innovazione dirompente a cui nulla deve resistere
Con questa idea in mente presi l’aereo nel 2005 assieme ad un tennis maniac come me curiosi entrambi di vedere se veramente fosse un tempio o, invece, soltanto un simulacro il cui significato reale veniva gonfiato da irriducibili nostalgici.
Il lunedì di apertura del torneo prendemmo la solita metropolitana che ci condusse in Church road perché – da sempre una mia fissazione – il torneo si deve vedere nei campi secondari, ad un passo dai giocatori e con l’erba intonsa.
Eravamo così emozionati che in una Londra insolitamente calda (se non ricordo male non si parlava ancora in maniera così ossessiva di climate change) l’attesa di quattro ore per la conquista del biglietto ci fu lieve. Attesa intervallata solo da un passaggio in farmacia (rigorosamente di indiani) ad acquistare una crema solare per evitare una sicura insolazione.
La cosa che più mi emozionò in quelle quattro ore fu la consegna di un tagliando (che ancora conservo gelosamente) con il numero progressivo che attestava il nostro diritto ad acquistare il biglietto passati tutti i numeri precedenti il nostro: era l’attestazione di un popolo enormemente superiore a noi dal punto di vista della civiltà e del rispetto, in un modo che definirei del tutto sostanziale.
Non mi sorprende quindi vedere ora 500.000 italiani che lasciano l’Italia per stabilirsi a Londra dove trovano rispetto per le loro aspettative economiche e non lo sfruttamento sistematico perpetuato dagli pseudo imprenditori di casa nostra.
Appena varcato i cancelli la nostra unica idea fu di dirigersi ai campi dove gli incontri stavano per iniziare e ci avvicinammo quindi ad un campo laterale dove giocava un italiano terraiolo (le cui fortune si materializzarono alla soglia dei trent’anni), tale Alessio Di Mauro, ricordato forse solo dalle statistiche che evidenziano i circa 40 italiani riusciti ad entrare tra i top 100 del ranking ATP.
Appena posizionatici sui sedili di legno non credemmo ai nostri occhi: Di Mauro, assieme al suo avversario (probabilmente un altro terraiolo), palleggiava da fondo con scambi che duravano assai..
Come diavolo era possibile? Non riuscivamo a spiegarcelo
Wimbledon era stato per noi da sempre il paradiso del serve&volley o, al massimo, la ricerca continua del primo momento giusto per conquistare la posizione utile a chiudere al volo scambi che sull’erba diventavano sempre più difficili causa i rimbalzi del tutto sghembi.
Era un enigma. Solo dopo alcuni anni scoprimmo l’hattrick dei giardinieri inglesi che, imbeccati dallo stolido board del club, avevano modificato la miscela dell’erba creando una varietà molto resistente e fitta che permetteva alla palla rimbalzi molto più alti e sicuramente meno incerti. Insomma, non era più l’erba che favoriva i grandi battitori e i maestri delle volée alla McEnroe: ora anche Nadal avrebbe avuto la sua chance di vincere.
La rivoluzione era, per chi lo intende, di natura copernicana. Basti pensare che il gioco piatto che un tempo pagava moltissimo su un’erba che ti restituiva un rimbalzo di 30 cm o poco più ora non era più esiziale e gli arrotini latini potevano dire tranquillamente la loro.
Abbandonammo presto i terraioli al loro destino (é vero che lo sport esalta il patriottismo, ma fino a un certo punto) e andammo a visitare il resto della struttura.
Ci colpirono gli spazi ampi, là possibilità di girare per i campi in totale tranquillità e relax, la facilità di scegliere qualsiasi campo per poter vedere i nostri beniamini. Era un vero e proprio sogno passeggiare in un corridoio in mezzo a due campi che avevano si è no tre file di sedie ognuno per ospitare gli spettatori: era come tuffarsi alla fine dell’Ottocento (o almeno era così che mi immaginavo fosse stato…).
Ho apprezzato ancora di più l’ampiezza della struttura di Wimbledon quando sono andato al Roland Garros (file ovunque per accedere ai campi laterali) e a Flushing Meadows, dove i flussi di gente sono veramente enormi e non ti permettono di goderti lo spettacolo con la giusta concentrazione.
Tra le partite viste me ne ricorderò per sempre una a cui assistemmo un po’ per assecondare il nostro sciovinismo di ritorno, un po’ perché amavamo i grandi battitori: Bracciali-Karlovic fu una vera e propria esperienza mistica. In primis perché, a differenza di oggi dove i campi in cui si misurano gli italiani sono infestati dagli emigranti economici venuti dal bel paese, allora noi paisà eravamo meno di 10.
Poi perché i cinque set tirati fino alla morte portarono al record di aces (se non ricordo male 55 Karlovic contro i 33 di Bracciali) sommerso alcuni anni dopo dalla mostruosa performance (anche se diluita in più giorni) tra lo statunitense John Isner e il francese Nicholas Mahut che totalizzò 113 aces per il primo (poi vincitore) e 103 per il secondo.
Facemmo talmente tanto il tifo per la vittoria di Daniele che all’uscita egli ci omaggiò di un saluto personalizzato che ci fece grande piacere.
Senza voler cadere in un’odiosa, retorica, i due giorni a Wimbledon sono stati indimenticabili nel vero senso della parola: ricordo ogni dettaglio di quei giorni e ogni volta che incontro un maniaco come me non faccio altro che riempirgli la testa del come non poter pensare di andare in pasto ai vermi prima di aver visto Wimbledon.
Oggi è finito Wimbledon 2019, con la finale più lunga della storia – 5 ore – e la vittoria 13-12 al quinto dopo il tie break di Novak Djokovic sul più grande. Colui che deve gran parte della sua leggenda proprio alla sua leggiadria sui prati, senza ombra di dubbio leggende anch’essi.