di Giacomo Mazzocchi
Il fatto che le ragazze del rugby italiano ieri a Padova abbiano travolto 31-12 le omologhe di Francia ha un valore più grande di quanto possa apparire a prima vista
specie se rapportato alla sconfitta per 27-14 subita dalla Nazionale maschile da parte della Francia. Le fanciulle si sono aggiudicate la seconda posizione assoluta nel prestigioso torneo mentre i giovanotti si sono guadagnati, insieme alla ventiduesima sconfitta consecutiva nel Trofeo delle Sei Nazioni, il beffardo Cucchiaio di Legno. Il commentatore non sa a che santo votarsi per offrire un’interpretazione non troppo catastrofica di queste vicende
Nello sport che più virile non si può trionfa la personalità ‘eroica’ della donna italiana
Femmina ma indomita e belluina, capace di sacrificarsi per il bene comune senza mai perdere di vista la realtà, la concretezza e gli interessi del gruppo. Senza edonismi, vanità e narcisismi.
Dopo aver soccorso lo sport italiano al maschile in tante discipline sportive,
oggi la donna italiana è in grado di trainare anche il rugby: non c’è niente di folcloristico!
E mettiamo da parte considerazioni ovvie che riguardano, per esempio, su come le ragazze abbiano tranquillamente superato la paura di farsi male o di perdere qualcosa esteticamente. Sono discorsi superati dai fatti.
Allo Stadio Olimpico di Roma, sabato era presente una buona frotta di Campioni del passato tutti scioccati su come gli azzurri avessero perso con una Francia dominata per settanta minuti su ottanta
Fra i più avviliti ed avvelenati il pilone Ambrogio Bona, il Flanker bresciano Salvatore “Nembo” Bonetti, l’ala aquilana Serafino Ghizzoni e l’ala trevigiana Manrico Marchetto.
Gente che ha appeso le scarpe al chiodo da oltre 30 anni, giocatori che per una generazione ha compiuto imprese memorabili senza guadagnare una lira, sacrificando al Dio Rugby interessi personali, carriere e magari anche la famiglia
Osservandoli, ricordando il loro entusiasmo purissimo, i sacrifici per conciliare le loro responsabilità verso la maglia azzurra con la vita di tutti i giorni, è scaturito semplice il confronto con le donne rugbiste di oggi che ai loro tempi non esistevano.
Dilettanti erano i rugbysti italiani fino al 1995, dilettanti sono le ragazze italiane: le uniche giocatrici professioniste sono le inglesi che, guarda caso, sono le vincitrici del Sei Nazioni 2019. Ma l’Italia è state molto vicina all’impresa e si è arresa nel confronto diretto solo per la superiore condizione fisica di avversarie che nella vita hanno il solo impegno di allenarsi.
Le dilettanti italiane sono operaia addetta al caricamento dei treni con il muletto, come la capitana Manuela Furlan, oppure ingegnere come Michela Sillari; e ancora cameriere di bar o ristoranti, etc..
Il parallelo fra la vita e la dimensione dilettantistica delle rugbiste italiane, rapportate alla dimensione professionistica dei loro attuali corrispondenti al maschile, conduce necessariamente a domanda e risposta del perché il rugby rosa italiano funzione meglio di quello azzurro.
Gli azzurri odierni sono il prodotto dei Centri di Formazione federali Under 16, Under 18 e di Accademie Federali Under 19 (Tirrenia e Parma). Qui i migliori talenti selezionati per fisico e qualità tecniche si preparano all’Alto Livello
Il passo successivo è l’ingresso nelle due Franchigie Federali (i Superclub di Treviso-Benetton e Parma-Zebre) che partecipano a due Campionati del massimo livello tecnico-agonistico mondiale: il Guinness Pro 14 (dove la Benetton è seconda) che include i migliori club di Irlanda, Galles, Scozia e Sud Africa; l’Heineken Cup, la Coppa Europea che annovera il meglio del rugby inglese e francese.
Un percorso formativo perfetto che l’Italia ha affrontato con grande serietà ed investimenti
Il rugby italiano è così oggi in grado di misurarsi alla pari con ogni avversario nel Sei Nazioni. Contro la Francia le cifre parlano in termini assolutamente favorevoli agli azzurri per possesso, territorio, mischie, touche, placcaggi. Alla fine, però, realizziamo poco in proporzione a tale parità o superiorità, ci manca sempre qualcosa: cosa?
I veterani indicano il nocciolo del problema: la Passione!
Quella che motivava (e motiva) i dilettanti in tutti gli sport: fare qualcosa con entusiasmo e voglia dettati dall’amore, dalla passione, non come lavoro ben retribuito. Per interesse non ci si immola, per passione sì! Gli azzurri di Conor O’Shea sono ormai capaci di impossessarsi dell’ovale e gestirlo fino a 20 fasi successive su un arco di un paio di minuti. Un compitino svolto molto bene, ma senza il lieto fine.
Nel Rugby (e non solo) il lieto fine si raggiunge quando la passione sublima lo sforzo
Quando, insomma, si conquista il metro fatale, il centimetro a testa bassa con il volto proteso al contatto ruvido con l’avversario e non poggiandogli la spalla o la schiena. E’ un atteggiamento che nessuna Accademia può apportare: o lo l’hai dentro o non lo hai. Non si tratta di merce rara.
L’ottimo CT delle ragazze italiane, Andrea Di Giandomenico, le ha trovate senza l’ausilio delle Accademie. Queste vanno bene, anzi benissimo e le utilizzano tutti i paesi all’avanguardia, ma poi alla resa dei conti ciò di cui si deve tenere conto è il carattere che va oltre tecnica e fisico
E che risulta decisivo. Sempre.
Le azzurre ne sono la dimostrazione assoluta. Così come lo sono gli All Blacks neozelandesi e gli irlandesi: per carattere sempre dilettanti e non imborghesiti. E d anche i francesi di sabato scorso che per settanta minuti hanno placcato e difeso tutto quello che si poteva e doveva
Il rugby italiano ha adottato da anni lo slogan RUGBY PASSIONE ITALIANA
Speriamo che in un prossimo futuro questo assunto non sia solo prerogativa delle azzurre: forse O’Shea dovrebbe rallentare la sua enfasi tecnico-tattica per dedicarsi maggiormente agli aspetti caratteriali.